“I nostri antichi trovavano opportuno raffigurare il Bambin Gesù accanto ai simboli della Passione. Se vogliamo comprendere quella nascita dobbiamo pensare al destino che essa contiene in sé, a tutta la storia che da qui prende origine. È una storia che conosce il dolore più straziante, ma non è una storia di dolore. È una storia di amore, di donazione, di grazia, di verità, di luce e di infinito” (Zeno Davòli).
Tre esempi, fra i tanti. Giotto affrescando la Natività nella Cappella degli Scrovegni dissemina non pochi “segni” che preludono alla Passione. L’aureola del Bambino è crucesignata; Giuseppe si sorregge il capo nel canonico atteggiamento della melancolìa, ed ha una greve mestizia stampata negli occhi socchiusi; l’asinello è il “sorcino crociato”, connotato dalla lunga fascia nera che corre dal capo alla coda, ortogonalmente intersecata “a croce” sul dorso; Maria che qui sta per deporre il bambino in fasce nella mangiatoia è quasi identica (nel gesto, nell’acconciatura e nel volto dall’espressione trepidante) all’Addolorata che abbraccia il Cristo morto il quale trentatré anni dopo verrà fasciato nella sindone e deposto nel sepolcro nuovo. Giotto è davvero geniale nel celare questi segni in modo “dis-creto”, ovvero offerto all’intelligenza di chi ha il dono di “dis-cernerli” al termine di un’assidua contemplazione.
Altri due pittori sono più espliciti, forse per timore che ci si fermi ad una lettura epidermica e sentimentale del Natale. Benedetto Bonfigli (1420-1496), in una tavoletta conservata alla National di Londra, ci appare straniante e “pro-vocatorio” quando non teme di piazzare Cristo Crocifisso (per di più imberbe) sul Golgota alla destra dell’Epifania. Colmo di sconfinata mestizia è il volto di Maria. Il primo dei Magi ha già posato a terra la corona regale e si è inginocchiato per adorare il Re dei re che si è fatto Bambino, ma con la coda dell’occhio Maria sembra vedere l’irta corona di spine di una ben diversa regalità, quella del Servo sofferente. Il neonato Gesù appare già in grado di stringere il dono che – identico a quello degli altri due Magi – ha forma di pisside o di antico ostensorio e, poco più in là, dal costato squarciato come pure da mani e piedi trafitti prorompono rossi fiori di sangue in prospettiva eucaristica. Immedesimiamoci nel cristiano che prega davanti a questa tavoletta “pan-oramica”: è aiutato a far memoria sinteticamente di tutto l’essenziale. Il Verbo incarnato che si è epifanizzato nel Bambino, e che è morto in croce, permane e continua ad offrirsi al nostro sguardo adorante nel sacramento eucaristico.
E allora che paura abbiamo? Altrettanto sorprendente è la Natività dipinta giusto cinquecento anni fa – nel 1523 – da Lorenzo Lotto, una tavoletta di cm. 46x35 conservata alla National di Washington: come già in Giotto così qui i segni della Passione sarebbero discreti (le braccia incrociate sul petto di Maria, il vincastro a forma di “T” fra le braccia di Giuseppe, i fasci di luce che s’irradiano “a croce” dalla testa di Gesù bambino) se non fosse per quel vistoso crocifisso rinascimentale appoggiato su una mensola in penombra in alto a sinistra, come in tante case di allora e di oggi. E proprio questa dimensione domestica e familiare rende il tutto commovente e per nulla sconcertante. Come giusto ottocento anni fa, nel 1223 a Greccio, san Francesco “inventò” il presepe vivente al fine di immedesimarsi nell’Avvenimento, così questa tavoletta del Lotto aiuta a contemplare i due momenti fondamentali dell’Incarnazione e della Redenzione attraverso la croce: una storia intera che rende la nostra vita integralmente umana, guarita, sana, qualsiasi sia la circostanza inevitabile che ci è data.
di Roberto Filippetti www.filippetti.eu