Al Meeting di Rimini, un paio di mesi fa, ad ogni passo incontravo qualcuno che mi fermava per ringraziarmi di quella volta - e puntualmente mi dicevano il mese e l'anno - in cui ci eravamo incontrati per guardare insieme Giotto. E di tutti gli affreschi della Cappella Scrovegni, quello che a distanza di anni ricordavano era l'omino sotto la croce. Per 700 anni è stata questa l'ultima immagine che uno vedeva in uscita: nel grande Giudizio Universale che occupa tutta la controfacciata, giganteggia una croce che divide il paradiso dall'inferno. La croce non tocca terra e l'omino prova ad abbracciarla, ma è troppo grande: non riesce a stringerla tutta. Assoluta sproporzione! Di lui vediamo i piedi, le gambe, appunto le braccia, i capelli un po' mossi, ma non il volto: ciascuno di noi può dunque immedesimarsi in lui e dargli il proprio volto. Possiamo riconoscerci in quell'omino che non si capacita del fatto che la croce non lo schiacci; allora assieme a lui possiamo alzare lo sguardo e scoprire che non siamo soli: due grandi angeli sorreggono il legno. Sono loro quelli che fanno la gran parte della fatica. E gli angeli sono anche gli amici in carne e ossa, la "com-pagnia" (parola bellissima che significa "condividere il pane").
C'è una seconda immagine cara a chi più di altri è segnato da una sofferenza grande. Giotto - si sa- dipinge d'un azzurro indimenticabile la volta stellata, ma non solo: fa scivolare questo cielo anche sopra tutti i 36 affreschi nei quali si snoda la narrazione. E, nel gioco delle simmetrie, oppone al cenacolo coi dodici apostoli il pretorio di Pilato con dodici loschi figuri che deridono, flagellano e coprono d'ingiurie il povero Cristo. Ebbene, nel cenacolo le due finestre sono aperte e lasciano vedere l'azzurro dell'esterno, uguale a quello del cielo; anche nel pretorio le finestre sono aperte, ma oltre la grata si vede la tenebra più cupa, sebbene su in alto ci sia il consueto cielo azzurro. Un giorno mi è accaduto di capire il perché di questo strepitoso "anà-cronismo": anche sopra i momenti più bui permane l'azzurro del cielo, ovvero l'abbraccio del Mistero buono.
Da Giotto a Dante il passo è breve. Erano pressoché coetanei e sono stati entrambi numeri uno, nella pittura il primo e nella poesia il secondo. Di Dante pochi giorni fa - il 14 settembre - abbiamo celebrato i settecento anni dalla morte. All'età di nove anni egli aveva incontrato Beatrice; nove anni dopo, alle nove, l'aveva rivista ed aveva scritto - nella Vita Nova - che Beatrice è "uno nove, cioè uno miracolo". Il nove, in quanto tre per tre (ovvero il numero perfetto al quadrato) simboleggia il miracolo. Beatrice lo "saluta", cioè gli porta la salute; Beatrice è "cosa venuta / da cielo in terra / a miracol mostrare". Miracolo, mirabilia, meraviglia: l'incontro con una compagnia "beatrice", cioè che dona letizia senza togliere la drammaticità della vita, che per Dante non è mai stata semplice, lui esule per un ventennio.
Ecco: la grande arte - pittura o poesia - mi aiuta a "ri-cordare", a portare di nuovo nel cuore. E ad abbracciare la circostanza inevitabile, lietamente. Ma a condizione che ci sia una compagnia reale che abbraccia me, ora.
di Roberto Filippetti