Paolo Marchiori oggi ha 59 anni e da quando ne aveva 44 convive con la Sla, la sclerosi laterale amiotrofica. Non parla più ed utilizza un comunicatore oculare dalla tecnologia molto sofisticata per scrivere, leggere, navigare in internet ed inviare messaggi.

A lui, che ha sofferto moltissimo – «ho toccato il fondo della disperazione nei giorni angoscianti ed incerti della diagnosi e nel buio dei passi che ne sono seguiti» – e che nel percorso di fede ha trovato il senso della sua vita, abbiamo chiesto un parere sul primo sì in Italia al suicidio assistito.

«Secondo il mio parere e la mia esperienza di malato di sla con tracheostomia e tutto paralizzato, ritengo che oggi si parla di eutanasia con troppa superficialità perché non è un problema di tutti. Niente è scontato nella vita, Oggi si parla di suicidio assistito, ma dobbiamo analizzare caso per caso, non tutti hanno una famiglia che li assiste, non tutti hanno degli amici che li vanno a trovare, non tutti sono assistiti adeguatamente, per cui non possiamo giudicare le scelte di chi non ce la fa più a vivere quella condizione».

Non giudicare è l’imperativo categorico di Paolo. Capire che ogni situazione è differente. Che ciascuno è diverso.

«Bisogna capire il perché una persona fa una certa scelta – spiega -. La maggioranza parla a vanvera, non sa niente delle difficoltà quotidiane di un paralizzato, ma anche le difficoltà della famiglia, per cui lo stesso malato si può sentire un peso e con questo pensiero vive male. Io sono cattolico, e considero la vita una cosa sacra, ma da cattolico dico anche che c’è un limite alla sofferenza. Dico no all’accanimento terapeutico, oltre quello che un uomo puó sopportare, penso che anche Dio non accetti una sofferenza superiore al limite».

Il limite: quando si raggiunge? Chi lo stabilisce? Chi decide? Paolo è chiaro: «Il limite non è uguale per tutti, e mi altero quando sento dire che quel malato non accetta la malattia. Nessuno accetta una malattia, si accetta la condizione a secondo della voglia di vivere. Io abolirei la parola eutanasia e suicidio assistito e le sostituirei con “la libertà di scelta della propria cura”.

Dico questo perché un malato deve sapere e conoscere il proprio percorso di malattia, ed essere seguito da medici e psicologi. È indispensabile la presa in carico del malato perché la famiglia da sola non ce la fa. Io stesso vivo per mezzo di due ausili, un tubo per mangiare e uno per respirare. Nei primi anni della malattia ero contro la tracheostomia, poi nel momento critico ho cambiato idea. Ma tutto dipende dal proprio carattere e dal contesto in cui si vive e come si vive. Come si riesce a dare un senso alla propria vita anche in condizioni difficili».

La fede ha dato senso alla vita di Paolo Marchiori, anche nelle condizioni sempre più difficili, anno dopo anno:

«Qualcuno si illude che la fede tolga il problema della malattia. Ovviamente no: la sofferenza c’è e non la si può negare. C’è, per chi è malato e per chi lo assiste e gli vuole bene. Ma non è più quella sorda disperazione, ma è una sofferenza che dà speranza, perché ha un valore ed esso si trova nella fede».

Dare un senso alla propria vita per Paolo significa, per tornare alla notizia del consenso al suicidio assistito dato ad un uomo tetraplegico, «che ognuno, e lo dico da laico, deve avere la libertà di scelta nella propria vita; dobbiamo però capire il perché di certe scelte: ci sono troppe persone che soffrono e che sono dimenticate e quando uno decide di morire, la colpa è di tutti perché non si trova mai il tempo per andare a trovare un malato».

Più nel merito, Paolo Marchiori sottolinea che «possiamo fare tutte le leggi che vogliamo, e dare la possibilità di morire a chi vuole, ma diventa una sconfitta della società, perché non c’è una cultura della sofferenza, manca la cultura che aiuta a capire, ad accettare e a condividere. Questo porta le persone ad aver paura, per cui chi soffre rimane sempre più solo, e la solitudine ti uccide». Paolo ribadisce che «nemmeno Dio accetta l’accanimento terapeutico».

«Da cattolico posso anche essere contrario, al suicidio assistito, perché la vita è sacra, e la sofferenza offerta a Dio ha un grande valore salvifico, ma credo anche che quando una persona non ce la fa più, va accompagnata nella sua Pasqua – conclude Marchiori -. Non c’è bisogno del suicidio assistito, perché credo che sia sufficiente non accanirsi».

E poi un pressante invito: «Se abbiamo un po’ di tempo libero, dedichiamone una parte a chi vive in una struttura, e anche a domicilio. Sono persone che soffrono per la malattia, ma anche e soprattutto per la solitudine e il senso di abbandono».

di Anna Della Moretta - Giornale di Brescia 24/11/2021

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