La vicenda della bambina inglese Indi, condannata dalla giustizia britannica non sarà, temiamo l'ultima. Il caso ha suscitato forti commozioni, indignazioni, prese di posizione. Ora è già nel dimenticatoio. La politica ci ha messo del suo, nel bene e nel male. La classe medica italiana - a parte l'ospedale che si è offerto di accogliere Indi - ha mandato segnali difformi. C'è chi paventa il rischio di diffondere una idea miracolistica della medicina.
Ma ciò può rischiare di essere una posizione difensiva o corporativa che finisce per giustificare la giustizia britannica (della quale vien da pensare sia stata mossa da considerazioni più meschine o nazionalistiche). Il nodo gordiano molto difficile da sciogliere - bisogna che ce lo diciamo - è il chi deve avere l'ultima parola, perché abbiamo detto che su Indi bisognava rispettare la volontà dei genitori. Giustissimo! Ma in altri casi, se teorizziamo il diritto dell'ultima parola a chi è coinvolto, quando i genitori o qualche congiunto "pretendano" al contrario una rapida eutanasia per uno della famiglia (o venga chiesto un suicidio assistito da parte di un singolo) come ci regoliamo? La domanda è drammatica anche per chi è "pro life". Una idea laica e "inclusiva" o neutra di libertà giustificherebbe sia il padre di Eluana Englaro che, all'opposto, il padre eroico di Cristina Magrini. Certamente e in ogni caso non giustifica il giudice inglese.
Avvertiamo però, se siamo sinceri, che questa libertà indistinta ci lascia inappagati e incerti. Tuttavia una bussola umana e ideale, che può e deve richiedere solidarietà e forse anche un po' di eroismo tra famiglie, medici e "comunità civili", è che la vita non appartiene né allo stato né ai genitori né ai singoli. Ci è data. Tanto è vero che normalmente facciamo di tutto per impedire i suicidi. Quindi percepiamo al fondo che non siamo padroni della nostra stessa vita e sentiamo che la vita merita di essere vissuta per intero o sempre "ritentata" fin che sia possibile. Perché però non si perda il senso, drammatico e sbalorditivo, che la vita è dono bisogna non essere soli. E avere tutti, giudici inclusi, una immensa capacità di amore e rispetto. Quella capacità che può anche mostrarci il discernimento, a volte confuso o non facile ma non censurabile, tra cura legittima e accanimento terapeutico da evitare. L'ideologia militante o una giustizia astratta, ormai lo sappiamo, non aiutano in questa frontiere estrema dove si gioca tutto dell'umano