La sindrome di Chops ha solo due particolari graziosi: il nome e occhioni da bambola con ciglia lunghissime. Invece la realtà è che Chops è un acronimo impietoso dove la C sta per ritardo cognitivo e le altre lettere descrivono gravi difetti cardiaci e polmonari, obesità, displasia dello scheletro e statura bassa, problemi uditivi e visivi. In Italia tre bambini sono affetti da questa Sindrome, trenta in tutto il mondo. Questa che raccontiamo è la storia di Mario e della sua famiglia e del loro coraggio.
Mamma Manuela e papà Giovanni alla comparsa dei primi sintomi si sono mossi innanzitutto per cercare di capire quali fosse la causa dei molti disturbi di Mario. Solo nel gennaio 2023 a quasi due anni dalla nascita, l’intuizione di un genetista bolognese indirizza verso la diagnosi di Chops. L’incontro casuale all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna con i genitori di uno dei due bambini italiani affetto dalla sindrome dà loro nuovo coraggio e mette in moto la ricerca nel resto del mondo di chi soffre di questa patologia.
Ad oggi non esiste terapia per la Chops, ma riuscire a curare i tanti sintomi darebbe ai bambini una vita vivibile. Scoprire l’origine della mutazione genetica sarebbe il primo passo verso un farmaco ma purtroppo le malattie rare sono anche “orfane”. Per pochi bambini la ricerca non conviene, non fa business. “Così ci siamo mossi noi -spiega Manuela – e presto la Rete internazionale di famiglie con bambini Chops mi ha chiesto di farmi portavoce per raccogliere fondi per la ricerca, la sola speranza per i nostri figli”. Nasce così la “Fondazione Chops Malattie Rare Ets” che ha aperto una raccolta fondi.
Servono 400.000 euro per avviare la ricerca e grazie alla generosità che è subito scattata la Fondazione Chops ha arruolato una commissione composta da genetisti e ricercatori, capitanati da Ian Krantz lo scienzato americano scopritore della sindrome, che (gratuitamente) valutano i progetti internazionali. I primi 70mila euro sono già stati destinati a finanziare una compagnia Usa di biotecnologie che mira a individuare le terapie adeguate alla complessità dei sintomi. Inoltre la Fondazione sta per avviare un bando aperto a tutto il mondo per un progetto di ricerca che scopra i meccanismi genetici della sindrome.
Dice papà Giovanni: “… Oggi a Dio dico solo dammi la forza, donaci una speranza”…. e come Manuela sottolinea: “Mario forse è nato con questa missione, doveva smuovere tanti cuori, la gente dona perché vede i suoi grandi occhi e il suo sorriso”. Il logo della Fondazione Chops Ets è un bimbo che sale le scale con lo zaino sulle spalle, perché ogni bambino Chops ha la sua salita da fare e «anche Mario - dice Manuela - ha il suo zainetto e noi non sappiamo cosa porta».
Buon cammino Mario, saliamo quella scala insieme con te…
La Quaresima ci prende per mano e ci accompagna fin sulla soglia del Mistero pasquale. Fino al precipizio del Golgota e fino al sepolcro vuoto, pochi metri più in là, nel giardino, in quell’alba radiosa della Resurrezione. Sappiamo bene come gli artisti abbiano immaginato Cristo crocifisso: a volte l’abbiamo visto trionfante, ad occhi aperti, in capolavori d’epoca romanica; più spesso ci ha commosso fino alle lacrime il “Christus patiens”, straziato dal dolore, col profluvio di sangue che sgorga dalle cinque piaghe, in opere del Duecento gotico o del Seicento barocco. Ma c’è un crocifisso speciale, davvero straordinario, caro ai miei amici “Quadratini”.
È custodito in Navarra, nel Castello di Javier, ovvero di san Francesco Saverio, il missionario gesuita apostolo dell’estremo oriente. Se ti inginocchi ai suoi piedi, da povero mendicante, lui ti sorride e t’infonde uno sconfinato senso di pace; se invece ti accadesse di guardarlo dall’alto – dal punto di vista del Padre – riconosceresti un volto tremendamente serio e mesto.
Il dramma non è tolto, dunque. L’uomo Gesù di Nazareth ha sudato sangue nell’orto degli ulivi, ha chiesto al Padre che passasse da lui questo calice, è giunto ad urlare di sentirsi abbandonato. Osiamo troppo “immaginando” in questo volto di Figlio il volto del Padre, in quell’attimo decisivo? No! L’ha detto Gesù: “Chi vede me vede il Padre”, e lo vede anche nell’attimo supremo in cui il Cielo permette questa morte grazie alla quale muore la morte. Inimmaginabile dramma del Figlio specchio del Padre, visto da lassù.
Eppure, visto da quaggiù, è tutt’altra cosa: prostrato ai suoi piedi tu – uomo – riconosci che questo Crocifisso di Javier ti sorride. Allora anche tu, con tutta la tua fatica di vivere, sei attratto e quasi trascinato dentro questa misteriosa “perfetta letizia”, come la chiamava l’altro Francesco, quello d’Assisi. «L’uomo è lieto perché Dio vive: il suo è un dolore carico di letizia, ma è sempre dolore, un dolore di sé. E tuttavia è un dolore che ride, come quello dei bambini che sono caduti e hanno la faccia piena di lacrime e di pianto per il dolore che sentono, ma sorridono alla madre o al padre presente» (L. Giussani). Un giorno fui sorpreso dal fatto che Giacomo Leopardi, che aveva come quarto nome Francesco Saverio, e che da bambino aveva fatto uno splendido disegno a china del grande missionario gesuita, ne ha nascosto l’epica vicenda umana nella seconda strofa del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Eccola:
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, e alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.
Nella Istoria della Compagnia di Gesù Il gesuita ferrarese Daniello Bartoli narra così l’avventura missionaria del suo confratello attraverso le desolate lande del Giappone, per piantarvi il seme del Vangelo (evidenzio col corsivo i calchi puntuali ripresi da Leopardi circa centocinquant’anni dopo): in un inverno “orridissimo”, in un paese “tutto selve, montagne, valli”, “e certe pendici boscose… smaltate di così duro ghiaccio, che sono più le cadute che i passi che vi si fanno”, andava “il santo apostolo, male in arnese di panni, sempre a piè e scalzo, con su le spalle il suo fardello”; egli passava “torrenti e stagni d’acque gelate”, senza alcun “ristoro”, a parte un pugno di riso.
“Il sant’uomo”, ardente di carità, “con gli occhi in cielo e l’anima in Dio andava senza avvedersene e senza punto sentirne il dolore, co’ piè gonfi dal freddo, attraverso delle spine e de’ bronchi e su per le acute schegge de’ sassi fuor di sentiero, dovunque l’impeto dello spirito il portava, lasciando brani di vesta agli sterpi, che gliela stracciavan di dosso, e stampando ogni orma col sangue che dalle gambe e da’ piè ignudi e laceri gli grondava”. Iddio, come in visione estatica, gli aveva donato di contemplare l’“obbiettivo”, immettendolo negli “abissi” delle cose future. È come se Leopardi dicesse: passano i secoli, ma uguale è il “travaglio usato” della vita. Diametralmente opposto è però l’esito: il viaggio del Recanatese precipita tragicamente nell’“abisso orrido immenso”; il viaggio di san Francesco Saverio si solleva ad altezze abissali – il Destino, la meta, l’obbiettivo ultimo – per cui il dolore fisico non è tolto, ma è sacrificio che vale la pena. È un dolore che ride.
Il “Cristo che sorride” di Javier, statua lignea policroma del XV secolo
di Roberto Filippetti www.filippetti.eu
Può la luce di una ribalta in un attimo, inaspettatamente, esaltare la vita, quella vera, fatta di gioie ma anche di dolori? E proprio quando, ascoltando delle canzoni desideriamo solo dimenticare il buio, le difficoltà, l’amarezza, il dolore del mondo? E’ quello che è successo a Sanremo quando Giovanni Allevi è salito sul palco per raccontarsi, per ringraziare in un inno alla vita dentro una strada di dolore. Così si è raccontato:
“All’improvviso mi è crollato tutto. Non suono più il pianoforte davanti al pubblico da due anni. Nel mio ultimo concerto alla Konzerthaus di Vienna il dolore alla schiena era talmente forte che sull’applauso finale non riuscivo ad alzarmi dallo sgabello. E non sapevo ancora di essere malato. Poi è arrivata la diagnosi, pesantissima. Ho guardato il soffitto con la sensazione di avere la febbre a 39, per un anno consecutivo. Ho perso molto: il mio lavoro, i miei capelli, le mie certezze. Ma non la speranza e la voglia di immaginare. Era come se il dolore mi porgesse anche degli inaspettati doni. Quali? Vi faccio un esempio. Non molto tempo fa, prima che accadesse tutto questo, durante un concerto in un teatro pieno ho notato una poltrona vuota. Come una poltrona vuota? Mi sono sentito mancare. Eppure, quando ero agli inizi, per molto tempo ho fatto concerti davanti a un pubblico di 15, 20 persone, ed ero felicissimo. Oggi, dopo la malattia, non so cosa darei per suonare davanti a 15 persone. I numeri non contano perché ogni individuo è unico, irripetibile e a suo modo infinito.
Un altro dono è la gratitudine nei confronti della bellezza del creato. Non si contano le albe e i tramonti che ho ammirato da quelle stanze dell’ospedale. Il rosso dell’alba è diverso dal rosso del tramonto e se ci sono le nuvolette è ancora più bello. Un altro dono è la gratitudine per la competenza dei medici, degli infermieri, di tutto il personale ospedaliero. La riconoscenza per la ricerca scientifica, senza la quale non sarei qui a parlarvi. La riconoscenza per il sostegno che ricevo dalla mia famiglia, per la forza che ricevo dagli altri pazienti. Li chiamo guerrieri, e lo sono anche i loro familiari e i genitori dei piccoli guerrieri. I veri guerrieri sono i genitori dei piccoli pazienti. Ho portato queste anime con me sul palco. Facciamo loro un applauso.
Quando tutto crolla e resta in piedi solo l’essenziale, il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più. Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo. E come intuisce Kant, il cielo stellato può continuare a volteggiare nelle sue orbite perfette, io posso essere immerso in una condizione di continuo mutamento, eppure sento che in me c’è qualcosa che permane ed è ragionevole pensare che permarrà in eterno. Io sono quel che sono. Voglio andare fino in fondo a questo pensiero. Voglio accettare il nuovo Giovanni. Come dissi in quell’ultimo concerto a Vienna,non potendo più contare sul mio corpo, suonerò con tutta l’anima. Il brano si intitola Tomorrow, perché domani, per tutti noi, ci sia sempre ad attenderci un giorno più bello.
(Giovanni Allevi)