Commento di Don Luigi Giussani a “LA GOCCIA “ di F. CHOPIN)
“Avevo sentito decine e decine di volte La goccia di Chopin, perché piaceva molto a mio padre. E anche a me, man mano che diventavo grande - nove anni, dieci anni...-, è incominciato a piacere, perché la melodia in primo piano è facile a intendersi ed è molto gradevole. Il primo ascolto del pezzo mi imponeva la suggestività della musica in primo piano. Ma dopo decine e decine di volte che lo avevo ascoltato, una volta, mentre ero seduto in sala, mio papà mise su ancora questo pezzo:improvvisamente ho capito che non avevo compreso niente di quello che era "la goccia".
Infatti, il vero tema del pezzo non era la musica in primo piano, quella melodia immediata, tenera e suggestiva. Non era l'ascolto istintivo del pezzo che faceva emergere la sua verità: il suo significato vero era una cosa apparentemente monotona, tanto monotona da ridursi a una nota sola che si ripete continuamente, con qualche leggera variazione, dal principio alla fine….. Quella è la nota che dal principio alla fine domina e decide del significato di tutto il brano di Chopin, che decide dal principio alla fine cos'è la vita dell’uomo: sete di felicità. Qualunque cosa ti piaccia, ti attiri e desideri, al momento ti fa lieto, ma subito dopo passa.
Eppure c’è una nota che rimane intatta, con qualche leggera mutazione, ma dal principio alla fine rimane intatta nella sua profondità e, nella sua semplicità assoluta, nella sua univocità, domina tutta la vita: la sete di felicità. Quella è la nota della vita, mi accompagna come il pensiero mio: se lo tirassi via,la vita non avrebbe più dignità. La fantasia di colori e di forme in cui la vita si esprime diventerebbe una cesta di stracci, senza origine, scopo, significato…. Occorre che quella nota sia riconosciuta da noi in noi stessi, perché l’io è come un brano di musica fatto di quella nota, che ha come tema quella nota, anche se le cose che più fanno impressione sono quelle più superficiali: il piacere immediato, il gusto immediato, la riuscita immediata, l’impressione immediata, la reazione, ciò che è istintivo.
Quella nota distrugge continuamente l'istintivo e impedisce che tu ti fermi, ti arresti, perché l'istintivo dell'amore, della bellezza, del gusto del lavoro, della riuscita ti fossilizza, ti impietrisce. Al contrario è quella nota dominante che sbriciola le pietre e muove tutta la realtà del tempo e della nostra vita, la muove come l’acqua del fiume muove i ciottoli, come il mare muove la sabbia. Per questo tutte le domande che l’uomo può fare, tutte le attese che può avere, vanno a finire a questa nota: la sete di felicità.
Il 13 giugno 1926 a Montrouge in Francia nacque Jerome Lejeune. Laureatosi in medicina nel 1951 cominciò ad impegnarsi nelle ricerche sulla “Sindrome di Down” (chiamata allora anche mongoloidismo). Affiancato da due colleghi scoprì che, nei bambini affetti dalla sindrome, è presente un cromosoma in più nella coppia 21, per cui si iniziò ad indicare questa sindrome con il termine “Trisomia 21”.
Il suo impegno voleva essere in difesa della vita ma la sua ricerca pionieristica portò anche allo sviluppo di test prenatali usati per individuare la Sindrome di Down nei feti, molti dei quali vengono abortiti volontariamente per motivi eugenetici. Nonostante le pressioni della comunità scientifica e le ritorsioni per le sue prese di posizione in favore della vita nascente viaggiò in tutto il mondo per testimoniare la bellezza e la dignità inviolabile della vita umana davanti ai Parlamenti, alle assemblee degli scienziati e ai mass-media. Parlava pubblicamente di “Razzismo cromosomico” denunciando che “la medicina alla Molière invece di sopprimere la malattia sopprime il malato”.
L’amata moglie Birthe con cui ebbe cinque figli scrisse: “Davanti alla menzogna che uccide lui ha avuto il merito di non farsi mettere a tacere”. L’amore per i bambini con la Sindrome di Down era la motivazione alla base del lavoro di Lejeune Solo nella sua clinica parigina seguì cinquemila pazienti in età pediatrica, ricordando il nome di ognuno e dicendo ai loro genitori: “Dobbiamo amare il bambino e curare la malattia”. E come raccontò nel 2013 la figlia Clara, se il padre Jérôme riceveva una telefonata da una coppia che aspettava un bambino con la Sindrome di Down, lui smetteva di fare quello che stava facendo e andava ad incontrarli, in qualsiasi giorno, anche a Natale …”.
Jerome Lejeune fu veramente “padre” di una misteriosa abbondanza cromosomica che colpì tanti suoi figli - pazienti perché ha sempre seguito questa indicazione : “Una frase, una sola, determinerà la nostra condotta, la stessa parola di Gesù: Quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me (Mt 25,40)”. Il 21 gennaio 2021 Papa Francesco ha promulgato il decreto che riconosce le virtù eroiche di Jerome Lejeune proclamato Venerabile.
Ci stiamo incamminando anche noi con Giuseppe e Maria verso il 2 febbraio, festa della Presentazione di Gesù bambino al Tempio. Festa luminosa, la Candelora, che giunge come “compimento” quaranta giorni dopo il Natale. Prima di andare a letto si recita la “compieta” perché la giornata è “compiuta”. Quaranta è numero diffusissimo nella Bibbia che simboleggia appunto un tempo “compiuto”. Io condivido la “sub-gestiva” ipotesi che esso nasca dalle quaranta settimane della vertiginosa gestazione umana, dopodiché attraverso il travaglio del parto la creatura viene alla luce.
Solo tre esempi: i travagliati quarant’anni nel deserto, fino all’approdo nello splendore della Terra Promessa; i quaranta giorni di Gesù nel deserto e le tre tentazioni, fino all’inizio dei tre entusiasmanti anni di vita pubblica; i quaranta giorni per antonomasia – la quaresima – fino al trionfo dell’ingresso a Gerusalemme, cui fa seguito il precipizio del Golgota e il definitivo trionfo della radiosa alba nuova di Pasqua. Il giorno della Presentazione al tempio si “compie” l’attesa del vecchio Simeone, che può andare in pace perché i suoi occhi hanno visto nella carne di un Bambino la “luce per illuminare” tutti i popoli.
È questa una festa grande per noi latini, e grandissima nel mondo ortodosso che la chiama “ipapànte”, cioè “incontro”: l’incontro tra l’attesa del cuore e il suo sorprendente compimento. Etimologicamente “in-contro” è parola che cela un intimo ossimoro: “in-” esprime attrazione, “-contro” dice invece repulsione. Anche a livello semantico il Bambino entra in scena come “segno di contraddizione”. Nei capolavori di Giotto e del Beato Angelico vince il positivo, espresso dalla grande pace che connota i volti. Invece nei capolavori “gemelli” dei due cognati Giovanni Bellini e Andrea Mantegna tutto appare tremendamente serio e inquietante. Entrambe le tavole fissano il contraccolpo della profezia formulata dal vecchio sacerdote alla giovane Madre: “Anche a te una spada trafiggerà l’anima”.
È questo il primo dei “sette dolori” di Maria. Particolarmente sconsolato e incupito appare Giuseppe, in leggero secondo piano al centro. Ma c’è una parola-chiave, verso l’inizio del racconto dell’evangelista Luca: «A Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui» (Lc 2, 25). “Con-solazione”: da tempo m’interrogo su cosa significhi questa parola. Il card. Gianfranco Ravasi scrive: «l'etimologia di questo vocabolo è il termine “solo”: quindi “consolare” è sostanzialmente “stare con uno che è solo”».
Io credo invece che alla radice ci sia il latino solacium che significa “conforto, aiuto, ristoro”. Tenendo insieme le due ipotesi, “consolare” significa dunque donare una compagnia che conforta, e fare compagnia a chi è solo col suo dolore. Simeone aspettava la consolazione d’Israele e se la ritrovò sorprendentemente fra le braccia: una carne da abbracciare, dunque. Un Dio che non toglie la spada che trafigge neanche all’Addolorata sua Madre, ma che salirà in croce e si farà trafiggere. E che risorgerà. E che permarrà lungo i secoli nella forma della compagnia che “con-sola”.
di Roberto Filippetti www.filippetti.eu