Gioia di vivere: così s’intitola il recente volume dell’editore Donzelli con le Lettere e gli scritti sull’arte di Henri Matisse, il grande pittore che era nato nel 1869 e che morirà nel 1954.
La gioia di vivere (Le bonheur de vivre) era stato anche il titolo di uno dei suoi dipinti Fauve più celebri, del 1906, nel quale – giunto “nel mezzo del cammin di nostra vita” e baciato dal successo – egli aveva dato forma sensuale ai piaceri graziosamente donati dagli amori, dalla natura in fiore, e dalle arti quali la musica e la danza. Giusto trentacinque anni dopo, tutto si era fatto buio: un tumore all’intestino lo aveva condotto sul crinale tra la vita e la morte. A seguito dell’intervento chirurgico del 1941 all’ospedale di Lione l’artista continuava ad essere sofferente e il suo stato di salute necessitava della presenza costante di un’infermiera.
La voglia di vivere e di riprendere a creare rinacque soprattutto grazie ad un incontro: quello con Monique Bourgeois, la giovane allieva infermiera che sostituì provvisoriamente l’operatrice sanitaria andata in ferie. Quando un incontro è un avvenimento ne ricordiamo la data. Così fu per loro due: era il 26 settembre 1942. Lui aveva 73 anni, lei 21. Anche grazie a questo incontro Matisse giungerà a confessare: «mi è stata assegnata una seconda vita». C’era in Monique un misterioso fascino e l’artista pensò bene di farne la propria modella, ma posò per sole quattro tele perché ben preso si fece domenicana col nome di suor Jaques-Marie. La vocazione religiosa di lei condusse maieuticamente lui a rileggere i passi della propria vocazione artistica, imperniata su una visione della realtà come segno e analogia del Mistero. Ecco un ampio stralcio di una lettera di Matisse all’amica suora, lei con la vocazione alla vita contemplativa e orante, lui chiamato alla vita attiva e creante: «Io sono stato condotto (molto modestamente) pertanto -ed io l'ho constatato solamente in questi ultimi anni, guardando a ritroso il mio cammino- a considerarmi come destinato dall'Altissimo a risvegliare nello spirito degli altri uomini la visione delle cose, che conduca ad una elevazione dello spirito, fino a giungere al Creatore. Io obbedisco - io lo credo fermamente - al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.
La mia contemplazione non può essere soltanto di ammirazione ma deve essere attiva, mettendo in moto tutte le risorse dello spirito per creare il mezzo più diretto per elevare lo spirito dei miei simili verso una regione che li faccia uscire dalla loro bassa condizione umana – soprattutto dall'interesse “del guadagno per il guadagno” con il quale si pensa di poter tutto comprare. Voi pregate per me. Ve ne ringrazio. Domandate a Dio di donarmi nei miei ultimi anni la luce dello spirito che mi tenga in contatto con Lui, che mi permetta di far giungere la mia carriera lunga e laboriosa allo scopo che io ho sempre cercato: rendere la Sua gloria evidente ai ciechi […] Io vado in questo momento, come tutte le mattine, a fare la mia preghiera, con la matita in mano, davanti ad un melograno coperto di fiori nei diversi stadi della fioritura e spio la loro trasformazione, facendo questo non con uno spirito scientifico, ma compenetrato di ammirazione per l'opera divina. Non è questo un modo di pregare? Ed io non faccio che (ma, in fondo, io non faccio niente, perché è Dio che conduce la mia mano) rendere evidente per gli altri l'intenerimento del mio cuore». Fu proprio questa amica suora a invitare Matisse a progettare la Cappella del Rosario per il foyer Lacordaire, a Vence, dove lei risiedeva. L’altare egli lo volle scolpito in una pietra color del pane; le vetrate evocanti l’Albero della Vita le concepì come luminosa sorgente di colori che andassero ad accarezzare il bianco e nero delle pareti opposte con san Domenico, la Madonna col Bambino che già prefigura la croce, e le 14 stazioni della Via Crucis.
Conclusi i lavori di questa Cappella nel 1951, Matisse continuò a progettarne gli oggetti liturgici e i paramenti. Fra le varie casule una sola è esplicitamente ‘eloquente’: vi è scritto ESPERLUCAT che in dialetto provenzale significa “con gli occhi aperti”, “svegliato”. Nel paramento in uso per la liturgia dei defunti è dunque inscritta la speranza teologale: lo sguardo aperto sul risveglio eterno oltre il sonno della morte. Il padre Couturier riferì
di un colloquio avuto con Matisse, proprio a questo proposito: «Parliamo della casula nera: gli dico che non è una casula triste, ma una casula di resurrezione. Mi risponde: “E' questo di cui c'è bisogno, non è vero?” La morte non è la fine di tutto, è una porta che si apre”. Immediatamente i suoi occhi si riempirono di lacrime».
Ecco un florilegio di folgoranti riflessioni di Matisse su cosa aveva cercato di comunicare nella Cappella del Rosario a Vence, attraverso la luce, i colori e le figure faticosamente disegnate su riquadri di ceramica bianca, utilizzando un pennello intriso di pittura nera e fissato all’estremità di una lunga canna: “Bisognava decorare l'altare in modo leggero… Questa leggerezza dà il sentimento di liberazione, di affrancamento, così bene che la mia cappella non è: “Fratelli bisogna morire”. È, al contrario: “Fratelli bisogna vivere!”.
Quella di Vence è una Chiesa piena di gaiezza – uno spazio che renda la gente felice... Che tutti coloro che visitano questo luogo lo lascino gioiosi e riposati. Io voglio che quelli che entreranno nella mia cappella si sentano purificati e scaricati dai loro pesi. Noi avremo una cappella nella quale tutti potranno sperare. Quale che sia il carico dei peccati, li si potrà lasciare alla porta. Uscendo da Notre-Dame mi sono detto: “Eh bene! Di fronte a tutto questo cos'è la mia cappella?”… Allora mi sono detto: “E' un fiore. Non è che un fiore, ma è un fiore”.
Matisse 11 didascalie
- Interno della Cappella del Rosario a Vence, verso l’altare
- Henri Matisse e suor Jaques-Marie
- Matisse abbozza la Via Crucis
- La via Crucis in forma definitiva
- La casula “Esperlucat”
- Interno della Cappella del Rosario a Vence, verso il fondo
- Bonheur de vivre, 1906
- L’albero della Vita (dettaglio)
Vanessa Vettorello è una fotografa ritrattista che durante gli studi universitari in Psicologia ha scoperto la passione per la fotografia. Il suo progetto Fixing you prende le mosse dal libro con lo stesso titolo scritto anni fa dalla neurobiologa statunitense Susan R. Barry che racconta la sua vita in 3D subito dopo l’operazione che ha subito all’età di 5 anni per correggere lo strabismo. Anche Vanessa è stata affetta dallo stesso disturbo visivo.
“Da bambina - racconta - vedevo doppio e non avevo profondità di campo, per me ogni cosa era piatta e raddoppiata e non capivo quale fosse quella giusta. Alle elementari stavo in un mio mondo, ero sempre distratta e molto agitata e cadevo spesso, tanto che mi sono rotta tutta. Avevo sempre bisogno degli occhiali, che mi raddrizzavano la vista. Poi a 12 anni sono stata operata e ricordo perfettamente quando mi hanno tolto le bende: allo specchio ho visto una sola Vanessa. Non vedevo più la doppia me e da quel momento la mia vita è cambiata. Mi sono sentita più sicura, ho iniziato a fare sport e mi sono collegata con la realtà. Ho lasciato il mondo degli animaletti colorati che fino a quel giorno mi aveva tenuto compagnia”. Con il passare degli anni le è tornato il desiderio di tornare a vedere con occhi nuovi quel mondo che aveva percorso con uno sguardo “strano”. Ha letto libri, si è informata, ha cercato persone che la aiutassero ad andare a fondo al problema dello strabismo come l’ortottista Marisa Merlone e il professor Nucci,un luminare della chirurgia ottica per lo strabismo. “Ho deciso di raccontare lo strabismo –dice- perché se ne parla poco e soprattutto si parla poco di prevenzione.
Ci sono i mezzi per capirlo anche in un neonato e anche se è latente i genitori devono sapere che non è un problema estetico ma funzionale”. Con la fotografia, utilizzando delle doppie esposizioni, unendo la tecnica alla sua storia e alle sensazioni che ha provato negli anni Vanessa guarda con gli occhi del cuore tracciando una strada aperta alla speranza che lo strabismo non sia vissuto più come un tabù.
La storia di Luca è cominciata 25 anni fa. Aveva 15 anni quando un’operazione andata a male lo riduce in coma. 8 mesi di stato vegetativo, poi un dito che comincia a muoversi e compaiono i primi segni del risveglio. Ma la notte fra il 7 e l'8 gennaio del '98 Luca muore nel sonno. Da questa vicenda è germogliata una promessa: la nascita della “Casa dei Risvegli Luca De Nigris”, un centro innovativo di riabilitazione e di ricerca inaugurato nel 2004 a Bologna con la collaborazione tra l’Azienda USL e l’associazione di volontariato ONLUS “Gli Amici di Luca”. La struttura è composta da dieci moduli abitativi dove l’ospite può restare con un proprio caro e le famiglie partecipano al percorso di cura e riabilitazione. È una formula nuova, un “ospedale della famiglia” dove gli assistiti non sono considerati “malati” ma persone con alto bisogno di assistenza e di riabilitazione.
Fulvio De Nigris, il papà, ci dice: “ Luca è nello sguardo di queste persone, nei loro desideri, nelle loro speranze, in quello che per lui è andato perduto ma ancora possibile recuperare per chi ogni giorno vive la lunga difficile battaglia per la ripresa della vita. Noi siamo convinti di questo e del ruolo, nostro come di tanti, di “familiari esperti” che sostengono nella forza propulsiva dei tanti volontari e nell’impegno degli operatori sanitari e non nella ‘Casa dei Risvegli’.
La vicenda di Luca insegna anche questo: che il dolore non è mai chiuso in se stesso, che l’emotività e l’umanità non è mai isolata. Ma che è possibile farla interagire con professionalità diverse in una forma di alleanza terapeutica che nei rispettivi ruoli rafforza l‘obiettivo comune". Giovedì 19 ottobre 2023 al Parlamento Europeo si è realizzato l’incontro con la Casa dei Risvegli in occasione della nona "Giornata Europea dei Risvegli". . “Con questa Giornata europea – continua De Nigris – apriamo il confronto tra diverse realtà, ma per il futuro intendiamo allargare il numero di Enti e Paesi coinvolti. Anche l'associazione “Gli amici di Luca” è stata a Bruxelles per una tournèe realizzata insieme all’attore Alessandro Bergonzoni e le persone con esiti di coma che frequentano i laboratori teatrali della Casa dei Risvegli .
“Venticinque anni sono una grande spesa di tempo, ma non perdita - sottolinea l’attore -. Portiamo al centro l’idea di integrazione e del non far fuggire, ma “congiungere” i congiunti che se ne vanno. Con “Congiungivite” (che è lo slogan scelto per la campagna di quest’anno) facciamo proprio questo: cerchiamo di sforzarci per metterci su un’altra frequenza. Se la congiuntivite fa lacrimare e fa vedere opaco, la “Congiungivite” unisce: la salute, l’arte, la giustizia e tutto il resto. Ed è quello che fa la Casa dei Risvegli, luogo in cui si cerca di tenere la vita in connessione con tutto”.