C'è una storia che ha consumato qualche settimana fa il suo atto finale nelle Marche e che, a seconda di come vogliamo affrontarla, può diventare un concentrato di disperazione o di speranza. Noi optiamo per la speranza.
La notizia: una ragazza pesarese di 16 anni, Sofia Fraternale, è morta dopo una battaglia durata 14 mesi contro un tumore.
Lo so, di primo acchito può sorgere un moto di ribellione di fronte alla parola 'speranza': ma che diavolo di speranza ci può essere quando capita una tragedia simile? Non scherziamo, per favore.
Invece, ed è questa la straordinarietà della vicenda, c'è una luce che si è accesa ed è uscita, straripante, da questo fiume di disperazione. Una luce che sta facendo il giro d'Italia.
Sofia, già dai primi mesi della malattia, quando teneva per mano sua madre, i suoi famigliari e i suoi amici sorrideva e diceva loro: 'Sorridete anche voi, non abbiate paura'.
Non abbiate paura, sì: detto da lei che stava morendo.
La madre, Lucia, quando sua figlia è spirata ha detto subito: 'Il funerale di Sofia dovrà essere una festa'. Così è stato: allo stadio - il funerale si è celebrato in uno stadio - il prete ha fatto suonare proprio le campane a festa. Si piangeva, certo, perché è umano piangere quando qualcuno se ne va. Ma si è pure sorriso, come voleva Sofia, come voleva sua madre, come si sentivano di fare tutti. C'erano duemila persone ed è stata una giornata incredibilmente intensa. Tutti abbracciati.
Pensate che per mesi e mesi gli amici di Sofia avevano snocciolato i grani dei rosari: nella speranza anche del miracolo, sì. Non c’è nulla di più umano che chiedere un miracolo. Miracolo che non si è compiuto: Sofia è morta, non è guarita.
Un qualcosa che non è un miracolo ma forse qualcosa di simile, si è però compiuto a Pesaro: la speranza ha battuto la disperazione.
Come e perché?
Ognuno dia le sue risposte.
Ricordiamoci solo che siamo tutti dei poveretti, ospiti provvisori di questo mondo, e anche se non ce lo diciamo mai, abbiamo tanto bisogno di dare un senso a ogni attimo della nostra vita. E ogni attimo è un mistero, in fondo. Ci fingiamo dei superman, ma siamo terribilmente fragili. Tutti. E a volte può anche essere, se non bello, più umano mostrare la nostra fragilità.
Ecco, l'arte della fragilità: la ragazza ci ha insegnato questa roba qui. E così si vive meglio.
Grazie, dolce Sofia
di Massimo Pandolfi
La notorietà, i fan, il successo non sono un baluardo che la malattia non può infrangere. Quando arriva colpisce l’uomo qualunque sia il suo nome. Certo chi è famoso ha più possibilità di dare voce al dolore e alla disperazione e può anche aprire più facilmente spiragli di speranza. Michael Fox quest’anno ha compiuto 62 anni. L’attore di “Ritorno al Futuro” cammina con il Parkinson, o meglio, il Parkinson ostacola il suo cammino da quando aveva 29 anni.
Nel pieno del successo scopre la sua malattia. La sua reazione è stata la negazione totale della realtà. Ai medici che gli comunicavano la diagnosi disse: “Ma sapete con chi state parlando? A me non può prendere”...
“Avevo paura che avrei perso tutto”. Dopo aver tentato di mascherare il più possibile la propria condizione sceglie di affrontare il problema annegando la paura nell’alcool. “Poi mi sono svegliato una mattina e ho visto il viso di Tracy, mia moglie. Mi ha detto: ‘È questo che vuoi?’ Immediatamente ho capito, questo non era ciò che volevo. Così ho smesso di bere nel 92. Ho intuito che se potevo scegliere riguardo al bere, potevo fare delle scelte anche riguardo al Parkinson”. Nasce così l’impegno nella Michael J.Fox Foundation, associazione che contribuisce alla ricerca sul Parkinson e riceve per questo motivo la Laurea Honoris Causa (lui che aveva abbandonato il liceo per fare l’attore!) dal ‘Karolinska Institutet di Stoccolma’, l’istituto che si occupa di assegnare i premi Nobel per la Medicina. “Accettare la malattia – dice- non significa rassegnazione, ma capire che ogni cosa è quello che è e che ci deve essere sempre un modo per passarci in mezzo. Mi vedo come se fossi un fluido che passa attraverso le crepe e le fessure”.
“Mi piace essere vivo. Amo la mia famiglia e il mio lavoro. Mi piace la possibilità di fare le cose. Ecco cosa è la felicità”.
Questo libro è l’autobiografia del medico giapponese Takashi Paolo Nagai. Il 9 agosto 1945 esplode su Nagasaki la seconda bomba atomica della storia dopo quella di Hirishima. 40.000 persone muoiono quel giorno e altrettante nei giorni a seguire. Takashi scriverà: “Noi dovremmo trasformare la nostra vita in poesia. Dobbiamo scavare sotto la superficie delle cose, cercare la bellezza nascosta che è dappertutto e scoprire la gloria del creato che è intorno a noi. Allora ogni giorno diventerà una poesia. Siamo vivi, siamo vivi e un intero giorno ci attende."
Iniziano così i sei anni migliori e più intensi della sua vita. Quel giorno ha perso la sua amata moglie Midori. Di lei restano solo un mucchietto d’ossa e un rosario fuso ma proprio in quel momento si rende ancora più conto del «il valore della testimonianza della moglie, che aveva sempre vissuto nell’umiltà e nel silenzio il suo sì a “Ciò che non muore mai”. Pur avendo scoperto di aver contratto la leucemia non si allontana dalla valle di Urakami continuando ad aiutare gli altri a prendere in mano la propria vita e facendo ogni giorno “un piccolo bene che ognuno può fare”. La testimonianza di quest’uomo pieno di gioia riesce a stemperare anche l’odio dei giapponesi per gli americani in una fase politica delicatissima. L’imperatore Hirohito lo va a trovare, Papa Pio XII gli manda in visita il cardinale Norman Gilroy ma è soprattutto la gente comune che va lì per trovare la speranza.
Paolo Nagai muore il 1° maggio 1951. Due giorni dopo per il suo funerale si ferma l’intera Nagasaki.