ARIALeggere questo libro è un’altalena di emozioni, quelle stesse emozioni che l’autrice Ada D’Adamo ci trasmette dalla prima all’ultima pagina; una sorta di diario in cui racconta la sua vita di donna, di mamma di una figlia “speciale”: Daria, gravemente disabile, nata con una rara malformazione cerebrale. E poi la sua lotta personale contro un tumore al quarto stadio che non le lascerà scampo (il libro ha vinto il Premio Strega postumo, Ada è morta il primo aprile di quest’anno).

Nel racconto di Ada c’è certamente tanto dolore, anche rabbia e paura, non ci risparmia nulla, a volte sembra di ricevere un schiaffo in piena faccia, ma in mezzo a tutto questo emerge il grande amore per questa figlia così fragile e bisognosa di tutto e lei, Daria, dal mistero silenzioso in cui vive, riesce in qualche modo a trasmettere attimi di tenerezza, di gioia, anche solo con un sorriso, uno sguardo, una piccola conquista nel “comunicare” qualcosa.
Questa simbiosi tra madre e figlia è soprattutto un comunicare di corpi più che di parole, un linguaggio fatto di carezze, abbracci, sorrisi ed ecco che quando Ada scopre di essere malata ed il suo corpo inizia a deperire, diventa fragile, lei pensa che questo la allontanerà dalla figlia, non potendo più accudirla come prima, sarà invece questa doppia fragilità di corpi a renderle, se possibile, ancora più unite.

Come D’Aria è un libro che ci insegna ad amare la vita, a coglierne la bellezza anche quando non sembra possibile.
“Per lungo tempo ho pensato che la mia malattia fosse incompatibile con la tua, che i nostri corpi malati non potessero convivere e, soprattutto, che non potessero parlarsi. Invece ogni comunicazione continua a passare attraverso il corpo, anche se malato. Anzi, oso dire in virtù del suo essere malato”
“Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te.”

 di Maria Grazia Campagnani

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AMICIZIAGli anni di Covid hanno portato dolore e morte e più subdolamente hanno scavato un solco di isolamento tra le persone spingendole a chiudersi in una confort-zone apparentemente sicura, idealmente protettiva. L’altro è diventato, suo malgrado, il possibile nemico. Il filosofo Martin Buber ha scritto: “Il mondo non è comprensibile ma abbracciabile”.

Anche quando non comprendiamo allargare le braccia ci fa arrivare dove la comprensione non arriva. Abbiamo bisogno di “toccare” le nostre ferite e quelle degli altri in una vicinanza non solo ideale ma che diventa gesto, mano tesa, condivisione concreta. il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del dicastero per la Cultura e l’Educazione, nel suo nuovo libro “Amicizia. Un incontro che riempie la vita” dà una lettura splendida dell’abbraccio. “L’abbraccio è una delle espressioni umane più vere di reciprocità.. Qualcuno dice che il nostro corpo ha la forma di un abbraccio. È forse per questo che l’atto di abbracciare è così semplice, anche quando dobbiamo percorrere un lungo cammino.

L’abbraccio comunica la disponibilità a entrare in relazione con gli altri, superando il dualismo, facendo cadere armature e resistenze, manifestando un cedimento, anche solo per qualche istante, nella difesa dello spazio individuale. Quando gli abbracci si allacciano, incorporiamo e siamo incorporati nel cuore l’uno dell’altro, come se nel cuore dell’amico noi avessimo un nido o una patria. In questo abbandono consenziente si esprimono certezze che ci sono estremamente care: reciprocità, gioia, tenerezza, presenza, l’incontrarsi e il ritrovarsi, la comunione… Per questo l’abbraccio non è solo un legame, una pausa in cui il respiro riposa: è anche un trampolino che ci proietta là dove, senza la fiducia e l’ispirazione di quanti ci amano, non sapremmo arrivare… Con la sua vita e la sua morte, Gesù di Nazaret è sceso ad abbracciare tutti i nostri silenzi, anche quelli abissali, anche quelli remoti, per ridire la vita come possibilità di salvezza…. In verità, non c’è niente e nessuno che Gesù non abbia abbracciato o sia disposto ad abbracciare. L’amicizia di Gesù ci ricorda che Dio mette una virgola dove noi credevamo possibile solo un punto finale.” 

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anna1Giovanni Amarelli grazie al Club L’Inguaribile voglia di vivere ha accompagnato sua figlia Agata di quatto anni e mezzo nel mese di agosto in Polonia per delle cure molto importanti legate alla paralisi cerebrale infantile che le è stata diagnosticata più di tre anni fa. Ci racconta Giovanni: “Siamo qui a fare qualcosa che in Italia ad oggi non è possibile (riabilitazione intensiva), ma io cosa ci faccio qui? Perché io? Perché Agata? Perché la mia famiglia è coinvolta tutta in questa "situazione"? Dove stiamo andando?”

Sabato 19 agosto 2023, a 33 anni, mi trovo, con mia figlia di 4 anni a condividere una serata con un gruppo di famiglie polacche (che non parlano nemmeno inglese) in un centro di riabilitazione in Polonia (a Male Gacno per essere precisi, una frazione della Polonia del nord composta da 60 case, nessun negozio e tanti boschi). 
Siamo seduti intorno ad un tavolo a bere acqua, succo d'arancia e qualche birra, non capisco praticamente nulla di quello che si dice, ci sono bambini dai 2 ai 12/13 anni. Alcuni sono seduti con noi, altri sul passeggino, altri ancora sono in carrozzina. Alcuni di questi bimbi non riescono a comunicare a parole ma utilizzano gesti e/o "versi". Anche loro vogliono interagire e questo è il loro modo di farsi sentire e di esprimere qualcosa (per me incomprensibile, per i loro genitori invece messaggi chiarissimi). Quella sera mi chiedo se, qualche anno fa, mi sarei mai aspettato di trovarmi in una situazione simile. Le famiglie, parlano, ridono, condividono. 
Io guardo, cerco di capire e parlo pochissimo. Sto con Agata, mia figlia, in braccio e ci raccontiamo qualcosa della giornata appena passata, di cosa faremo domani, di quanto ci manca la mamma e Enea (il fratello di Agata), ma anche di quanto abbiamo lavorato e ci siamo divertiti in questi giorni. La domanda che mi sorge spontanea da un momento all'altro è:
"Cosa ci faccio qui, stasera, con questa gente, in questo posto, ad agosto?"

anna2Si, siamo qui a fare qualcosa che in Italia ad oggi non è possibile (riabilitazione intensiva), ma io cosa ci faccio qui? Perché io? Perché Agata? Perché la mia famiglia è coinvolta tutta in questa "situazione"? Dove stiamo andando? Non ho mai avuto queste domande in maniera così chiara come questa sera. Così, da un momento all'altro, è come se avessi preso coscienza di dove ero in quel momento e di come fosse particolare quella situazione. Così, più tardi, dopo aver messo Agata a letto, torno a pensare a quanto sia incredibile quello che stiamo vivendo. Dopo qualche minuto le domande non sono diminuite, anzi... E le risposte hanno faticato ad arrivare. Ma ero certo di una cosa. Tutto questo percorso fatto con Agata mi sta facendo crescere come persona, come papà e come marito. Mi sta facendo guardare tutto con più serietà e interesse, mi sta facendo vivere un rapporto sempre più maturo con mia moglie. Mi sta facendo capire cosa sia la pazienza, cosa vuol dire desiderare, farsi aiutare, educare, soffrire e dedicare tempo ed energia a qualcun altro. Il lungo percorso che stiamo facendo con Agata è faticoso, molto faticoso.. ma se lo guardo con un po' di distacco, da lontano, per avere una visione più completa, non posso che ringraziare di essere qui, con lei, per lei, di sabato, ad Agosto, a non capire cosa stanno dicendo questi polacchi seduti intorno a me.

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